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Tuo figlio ti risponde male? Ribalto il punto di vista: non è una sfida

Sai quando fai di tutto per arrivare presto a prendere i tuoi figli a scuola, pregustando il momento in cui ti correranno incontro per abbracciarti contenti? E pochi minuti dopo invece perdono le staffe per una minima cosa, e iniziano ad attaccarti e ad arrabbiarsi con te? Ma perché mai un figlio che ti risponde male? E come fare se non ti tratta come vorresti?

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Aaahhhhh che nervosoooo!
Foto di Aaron Blanco su Unsplash.com

Mio figlio mi risponde male: la situazione tipica

Mi corre incontro appena mi vede, e mi salta in braccio con un gran sorriso.

“Mamma mamma! Guarda che bel disegno! L’ho fatto per te!”

Vorrei che quell’istante durasse ore; ma tutto gira veloce.

In quei primi momenti, nutro sempre l’illusione che il resto della giornata sarà magnifico, che tutto filerà in armonia e serenità.

Poi, basta un’inezia, un piccolo no a quale strada prendere tornando in bici, a quale merenda possiamo fare o a quale attività.

E inizia ad aggredirmi. A rispondermi male. Con un tono e un atteggiamento che potrebbero essere quelli di un’adolescente in piena crisi ormonale. E invece mia figlia ha appena compiuto 6 anni..

Adesso va meglio rispetto a due anni fa. C’è stato un periodo in cui non vi erano solo risposte taglienti, un po’ sbruffone; ma vere e proprie crisi di una rabbia che non sapevo da dove uscisse.

E se l’istinto mi diceva di capire, accogliere, restare comprensiva.. le voci intorno a me accusavano un’eccessivo lassismo. Difficile posizionarsi, fare spazio a una comprensione obiettiva, quando siete tu e i tuoi figli la parte in causa.

Come fare per accettare questa rabbia e queste emozioni senza reprimerle, ma allo stesso tempo porre dei limiti su come i bambini possono trattarci? Come reagire se nostro figlio ci risponde male?

E soprattutto.. perché lo fa? Visto che educatori, insegnanti, nonni, ci assicurano che “fino a 5 minuti fa era tranquillissimo!”?

Tuo figlio risponde male, una sfida? Dipende dall’interpretazione

Una prima risposta mi è arrivata grazie a un’interpretazione della teoria dell’attaccamento proposta dalla psicologa francese Isabelle Filliozat.

Secondo quanto scrive, i mammiferi hanno tutti bisogno di una figura di attaccamento che permette loro, tra le altre cose, di imparare a gestire le tensioni nervose causate dalla repressione delle emozioni.

Il principio è questo: il bambino, come noi adulti del resto, per potersi inserire in un contesto sociale inquadrato come quello scolastico deve per forza di cose “adeguarsi” e reprimere un po’ l’espressione delle sue emozioni. Questo gli richiede un gran dispendio di energia e provoca una certa dose di stress.

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Dopo una giornata stressante…
Foto di Mauro Mora su Unsplash.com

Alla prima piccola frustrazione che noi, anche senza volere, gli infliggiamo, questa tensione accumulata lo fa esplodere.. Contro di noi.

Contro di noi che siamo la sua figura di attaccamento e che abbiamo la funzione di accogliere queste emozioni e di aiutare nostro figlio a calmarsi.

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Lo schema della nostra reazione

Ormai ho riconosciuto lo schema abituale:

  1. Inizio idilliaco

  2. Evento dall’apparente insignificanza che fa scatenare mia figlia (o mio figlio, o tutti e due se proprio non vogliamo farci mancare nulla)

  3. Cerco di mantenere la calma, affermando il mio bisogno a essere trattata con calma ed educazione (“Sono sempre pronta ad ascoltarti, quando mi parli con gentilezza e un tono di voce normale” è diventato il mio secondo mantra dopo “Respira, andrà tutto bene”)

  4. Mia figlia aumenta il tiro, con risposte sempre più taglienti e fuori luogo

  5. Dopo un po’, non resisto più e perdo la calma e la minaccio di smettere

  6. I toni salgono ancora, in un circolo vizioso in cui ci “infiammiamo” a vicenda.

Diciamo che fino a metà percorso sono riuscita a mettere in pratica tutti i miei buoni propositi, ma poi qualcosa si rompe!

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La situazione stagna..

Ma come pretendere che mia figlia “si calmi” se glielo chiedo urlando a mia volta? Questa è spesso l’ironia della sorte genitoriale.


Il ribaltamento: se mio figlio risponde male, è perché ha bisogno di me

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I ribaltamenti di prospettiva proposti dalla Filliozat che mi hanno fatto vedere le cose in una luce nuova sono stati questi:

  1. Il comportamento inadeguato del bambino non è un problema, ma la reazione a un problema.

  2. L’amore è il carburante e non la ricompensa.

Secondo la teoria dell’attaccamento, tutti i nostri comportamenti sono motivati da un bisogno.

Le risposte violente di mia figlia diventano non una sfida alla mia autorità, ma il segnale di una situazione che lei non riesce (ancora) ad affrontare o un sovraccarico emotivo.

Fisicamente, nel suo corpo, questo accumulo di tensioni si riversa in azioni violente o aggressive, quando il bambino arriva al limite e non riesce più a controllarsi.

E, sempre fisicamente, sono il contatto con noi e la nostra attenzione che fanno rilasciare quelle sostanze (ossitocina, serotonina e dopamina) che permettono di ricaricarsi.

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Ed è qui l’aspetto sorprendente:

di fronte a mia figlia che mi urla contro, la migliore cura sarebbe.. di stringerla forte a me.

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Ok. Adesso ci calmiamo insieme.

Contro-intuitivo no?

Come cambiare il punto di vista, concretamente

Siamo abituati a pensare che se abbracciamo i nostri bambini quando si comportano male, è un po’ come premiare un’azione negativa (il famoso rinforzo positivo).

E in parte è forse anche vero.. Solo noi abbiamo, credo, le chiavi per osservare bene i nostri bambini e arrivare a capire di cosa abbia bisogno, se di una ridefinizione chiara dei limiti, o di una ricarica affettiva.

Se ci penso bene, ad esempio, so che le “sbruffonate” fatte dai bambini la domenica mattina, quando per un’ora io e il papà abbiamo fatto le pulizie in casa lasciandoli da soli, non sono uguali al grido di rabbia del lunedì sera prima di cena quando insisto perché mettano via le scarpe.

In ogni caso, resta vero che durante una crisi emotiva il bambino non è in grado di recepire il nostro messaggio razionalizzante “non è così che devi fare!

In quel momento, il suo cervello è in pieno allarme rosso: inutile fargli la ramanzina.

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Quando insegnare le regole seguendo la teoria dell’attaccamento?

L’idea del serbatoio affettivo e del carburante aiuta a riconoscere il bisogno di mio figlio di ricaricarsi grazie alle mie dimostrazioni di affetto; e solo una volta riempito il serbatoio e ristabilita la relazione, posso intervenire sulla ridefinizione delle regole.

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A volte, per ritrovare la calma, basta soffermare lo sguardo su qualcosa di piacevole.
Foto di Aviv Rachmadian su Unsplash.com

E a questo punto la discussione può vertere su:

  • trovare modi diversi di affrontare la stanchezza;
  • come riconoscerla per tempo prima di “esplodere”.
  • come chiederci aiuto quando sentono la crisi arrivare

Mio figlio è diventato bravo in questo: adesso, appena entra nella fase “pianto-disperato-da-rabbia-che-non-so-gestire-da-solo”, mi chiede tra le lacrime:

“Coccole! Mamma coccole!” (e a quel punto sfido chiunque a non sciogliersi).

Insomma, se non altro, pensare con orgoglio che mia figlia mi riempie di male parole perché si fida di me più di ogni altra persona al mondo, è comunque meglio che credere che mi voglia sfidare.

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Quali azioni concrete per reagire a un figlio che mi risponde male?

  • Cerco di notare se succede spesso o se è una cosa eccezionale, e osservo le circostanze in cui capita;

  • Mi ricordo di riempirlo di attenzione e contatto fisico il più possibile;

  • Provo a capire se ci sia qualche elemento di disagio nella vita del bambino, a casa o a scuola;

  • Gioco con lui il più possibile! I bambini si esprimono molto durante il gioco perché sono più liberi da inibizioni e paure;

  • Do l’esempio: imparo anche io a esprimere i miei bisogni senza perdere la calma; (“Ho bisogno che mi parli con gentilezza; ho bisogno di finire questo lavoro prima di poter giocare con te”) e a riconoscere i momenti in cui perdo il controllo. (“Sono arrabbiata, mi calmo e poi torno da te”);

  • Se mio figlio si chiude in camera, provo a seguirlo e a riprendere io per prima il contatto.

Mi piace questo ribaltamento di punto di vista perché richiede di agire sul lungo periodo, anziché nell’immediato.

Mi offre, inoltre, un’immagine mentale molto chiara: quando torniamo a casa, posso quasi vedere dentro ad ognuno di noi un serbatoio più o meno vuoto!

Il che mi aiuta a de-colpevolizzarmi se prendo 5 minuti per me o se “oso” abbracciare i miei bimbi; quando la norma vorrebbe che li mettessi in castigo.

Sto riempiendo il serbatoio. Non si ragiona a stomaco vuoto.


Fonti, riferimenti, approfondimenti

Ecco un elenco di siti, libri e articoli consigliati o da cui mi sono ispirata!

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2 commenti su “Tuo figlio ti risponde male? Ribalto il punto di vista: non è una sfida”

  1. Ciao Clio,
    ho notato che i miei bambini mi rispondono male quasi più per una moda che per una reale necessità di attenzione o confronto.

    Molti coetanei dei miei figli usano normalmente parolacce, modi sgarbati e irriverenti quasi a mostrare che sono “grandi”.
    Se tu li riprendi per un gesto o un modo maleducato, ti rispondono in malomodo irridendo la tua figura di adulto.
    Credo e, temo, dipenda dalla zona in cui viviamo dove, purtroppo, siamo circondati da famiglie che poco si curano dell’educazione della propria prole e si preoccupano più degli status symbol piuttosto che si rispettino le normali regole di convivenza.

    Quando anche i miei figli usano toni e modi irriverenti, li guardo e chiedo sempre loro se mi hanno mai sentito parlare così o rivolgermi a qualcuno in quella maniera.
    La risposta è ovvia e smonta subito l’atmosfera…

    L’esempio è basilare e noi siamo il loro specchio.

    Non è sempre semplice ma un respiro al momento giusto, aiuta sempre!
    W IL TUO POSTER!

    Buon pomeriggio

    Federica

    1. Ciao Federica, grazie mille sono felice di sapere che il poster aiuti!
      Capisco cosa vuoi dire, qui a casa succede a volte che i bambini più che altro usino delle parole poco gentili senza capire realmente il significato – quello che vedono è da una parte che sortiscono un grande effetto su noi adulti, e questo naturalmente li fa sentire importanti – oltre al fatto che vogliono magari emulare i compagni.
      Coi miei figli (che però non dicono vere e proprie parolacce, ma magari “cacca” o affini) ho provato due cose:
      la prima è sdrammatizzare la parolaccia. Spiegando che una parola non è buona o cattiva di per sé, ma che può essere usata in un modo che può ferire gli altri o far male – e che ci sono contesti in cui queste parole creano un problema. E poi, facendo sì ci sia un contesto scherzoso e “protetto” di gioco in cui usiamo insieme parole e espressioni irriverenti (senza però scendere nel volgare): “Pirata della cacca, hai mangiato vomito di ratto e tela di ragno per colazione?” – e lui a ridere, ed è la gara a chi tira fuori la cosa più schifosa finché ne ha abbastanza.
      La seconda cosa, quando usano la parola in pubblico, è prenderli da parte e spiegare l’offesa, e poi spiegare la mia conseguenza: ad esempio, che lo aiuto a prender coraggio e rimediare chiedendo scusa se ha offeso qualcuno; se invece è rivolta a me in modo particolarmente irrispettoso, dico loro che ho bisogno di esser trattata con rispetto, che mi sono sentita offesa, e che riprenderò a parlargli quando avrà ripreso un tono normale e delle parole gentili. Ma senza alzare la voce – per evitare che l’uso della parolaccia diventi un modo per sentirsi importante o per avere più attenzioni, anche se negative.
      Per il resto sono d’accordo con te: noi siamo l’esempio principale penso che alla lunga vincerà!!
      Buon pomeriggio 🙂

I commenti sono chiusi.

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